La parlésia e l'eredità della canzone napoletana. Arbore parla del suo
amico
Pino Daniele con Chick Corea nel 1992. Foto: Luciano
Viti
di RENZO ARBORE / 20 settembre 2016
Ho conosciuto Pino Daniele quando
facevo L’altra domenica e avevo corrispondenti in molte città italiane. Per Napoli c’era Raffaele Cascone,
al quale chiesi, ricordandomi dei locali che frequentavo quando vivevo lì, se non
c’era qualcuno che suonava dalle parti di calata San Marco o di piazza
Municipio, vicino a dove sbarcavano i marinai americani. Raffaele mi rispose che c’era un
ragazzo in un locale di fronte al Maschio Angioino, che faceva pezzi americani
ma secondo lui era bravo anche come autore, e io decisi di fare il servizio.
Fu così che mi accorsi di Pino Daniele, un ragazzo con la chitarra che suonava
e cantava delle bellissime canzoni. Tra l’altro, ne aveva registrata una per me
che era più facile delle altre, ’Na tazzulella ’e cafè,
allora io, malgrado la bellezza delle altre sue composizioni, che già davano
l’idea dell’importanza e del grande valore poetico e artistico di Pino, gli lanciai quel pezzo,
perché ero sicuro che sarebbe diventato un successo. Fa parte del mio
mestiere di deejay: quando senti l’odore del successo, non puoi non scegliere
il pezzo che funzionerà di più.
Così, ’Na tazzulella ’e cafè diventò
il singolo di Terra mia ed ebbe subito una fortuna straordinaria, seguito poi da un altro ritmo dello stesso tipo, Je
so’ pazzo. Comunque, io approfittai delle trasmissioni che facevo per
mettere non soltanto quella canzone, ma anche le altre cose di Pino Daniele.
Naturalmente poi l’ho conosciuto e abbiamo cementato la nostra
amicizia al famoso concerto che fece a Nettuno, dove si trasferì tutta Roma
per sentire quello straordinario nuovo cantautore napoletano.
Di Pino si è parlato moltissimo e le cose
più belle e più importanti le hanno già dette i suoi colleghi, che hanno
anche cantato le sue canzoni. Però una cosa vorrei dirla con precisione: Pino Daniele è stato uno degli
ultimi (forse il penultimo, con Gragnaniello) a rinnovare la canzone napoletana
d’autore.
Perché è vero che sono nati molti
cantautori, ma le canzoni napoletane storiche, meravigliose, come quelle di Di
Giacomo, di Viviani, ma anche di Gambardella, di Bovio e di E.A. Mario, che
molti artisti napoletani snobbano confondendole con canzoni turistiche (a me la
cosa fa sorridere!) o del passato, in realtà sono opere eterne, evergreen,
come i brani di Gershwin e di Cole Porter, dei Beatles e di Vinicius de Moraes,
e sono rare le canzoni davvero degne di questi capolavori del passato (come Era
de maggio), destinati a sopravvivere a tutti noi.
Pino Daniele ha il merito di aver
inventato la canzone napoletana d’autore moderna, trovando
nuovi accordi, avvicinando la tematica alla Napoli di oggi (la Napoli che ha
condiviso con Massimo Troisi) e battendosi contro gli stereotipi: una battaglia
curiosa e difficile, perché il rischio era quello di cancellare anche le cose
belle della Napoli classica e della cultura partenopea autentica. Insomma,
questo è il vero valore di Pino Daniele, che sopravviverà a tutti noi: aver
inventato, nel Novecento e un po’ nel Duemila, la nuova canzone napoletana
d’autore. La sua grande messe artistica è un vero gioiello, che merita un
posto particolare nel museo della canzone napoletana che spero che qualcuno,
prima o poi, si deciderà a fare, poiché è un bene dell’umanità.
A Pino mi univa anche l’amore per il gergo
dei musicisti, la cosiddetta “parlèsia”. Un retaggio che fa parte della mia militanza napoletana, quando con un contrabbasso a tre corde
cantavo con gli americani ai matrimoni e alle serate nei night, e ho imparato
ad “appunire la parlèsia”, a parlarla, insomma.
Questo meraviglioso linguaggio, che pare
sia stato inventato dai musicisti di bordo delle navi, che non volevano farsi
capire dai camerieri e dal resto dei passeggeri, è un vezzo che conservo ancora e che mi
ricordo di aver praticato con
Pino Daniele in una puntata di Doc, perché anche lui aveva il gusto per questo
linguaggio gergale, che rende noi musicisti napoletani quasi una comunità
chiusa.
E infatti quando Pino ha chiamato la sua
etichetta discografica “Bagaria”, che significa “grande bordello musicale”, io
ho detto: «Eccolo là, appunisce la parlesia!». Anzi, mi meraviglio che non
abbia fatto una canzone con una frase che certamente avrà detto mille volte: «Facimmo addó va» (e Just in mi?),
che significa “chiudiamo, niamo”. E quindi adesso anche noi, come direbbe lui
se fosse qua, facimmo addó va.
Questo testo è tratto
dal libro “Pino Daniele. Qualcosa arriverà”, a cura di Giorgio Verdelli e
Alessandro Daniele, edito da Rizzoli.
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