mercoledì 21 settembre 2016

«Facimmo addó va»: Renzo Arbore ricorda Pino Daniele

La parlésia e l'eredità della canzone napoletana. Arbore parla del suo amico


Pino Daniele con Chick Corea nel 1992. Foto: Luciano Viti
di RENZO ARBORE / 20 settembre 2016

Ho conosciuto Pino Daniele quando facevo L’altra domenica e avevo corrispondenti in molte città italiane. Per Napoli c’era Raffaele Cascone, al quale chiesi, ricordandomi dei locali che frequentavo quando vivevo lì, se non c’era qualcuno che suonava dalle parti di calata San Marco o di piazza Municipio, vicino a dove sbarcavano i marinai americani. Raffaele mi rispose che c’era un ragazzo in un locale di fronte al Maschio Angioino, che faceva pezzi americani ma secondo lui era bravo anche come autore, e io decisi di fare il servizio. Fu così che mi accorsi di Pino Daniele, un ragazzo con la chitarra che suonava e cantava delle bellissime canzoni. Tra l’altro, ne aveva registrata una per me che era più facile delle altre, ’Na tazzulella ’e cafè, allora io, malgrado la bellezza delle altre sue composizioni, che già davano l’idea dell’importanza e del grande valore poetico e artistico di Pino, gli lanciai quel pezzo, perché ero sicuro che sarebbe diventato un successo. Fa parte del mio mestiere di deejay: quando senti l’odore del successo, non puoi non scegliere il pezzo che funzionerà di più.
Così, ’Na tazzulella ’e cafè diventò il singolo di Terra mia ed ebbe subito una fortuna straordinaria, seguito poi da un altro ritmo dello stesso tipo, Je so’ pazzo. Comunque, io approfittai delle trasmissioni che facevo per mettere non soltanto quella canzone, ma anche le altre cose di Pino Daniele.
  
Naturalmente poi l’ho conosciuto e abbiamo cementato la nostra amicizia al famoso concerto che fece a Nettuno, dove si trasferì tutta Roma per sentire quello straordinario nuovo cantautore napoletano.
Di Pino si è parlato moltissimo e le cose più belle e più importanti le hanno già dette i suoi colleghi, che hanno anche cantato le sue canzoni. Però una cosa vorrei dirla con precisione: Pino Daniele è stato uno degli ultimi (forse il penultimo, con Gragnaniello) a rinnovare la canzone napoletana d’autore.
Perché è vero che sono nati molti cantautori, ma le canzoni napoletane storiche, meravigliose, come quelle di Di Giacomo, di Viviani, ma anche di Gambardella, di Bovio e di E.A. Mario, che molti artisti napoletani snobbano confondendole con canzoni turistiche (a me la cosa fa sorridere!) o del passato, in realtà sono opere eterne, evergreen, come i brani di Gershwin e di Cole Porter, dei Beatles e di Vinicius de Moraes, e sono rare le canzoni davvero degne di questi capolavori del passato (come Era de maggio), destinati a sopravvivere a tutti noi.

Pino Daniele ha il merito di aver inventato la canzone napoletana d’autore moderna, trovando nuovi accordi, avvicinando la tematica alla Napoli di oggi (la Napoli che ha condiviso con Massimo Troisi) e battendosi contro gli stereotipi: una battaglia curiosa e difficile, perché il rischio era quello di cancellare anche le cose belle della Napoli classica e della cultura partenopea autentica. Insomma, questo è il vero valore di Pino Daniele, che sopravviverà a tutti noi: aver inventato, nel Novecento e un po’ nel Duemila, la nuova canzone napoletana d’autore. La sua grande messe artistica è un vero gioiello, che merita un posto particolare nel museo della canzone napoletana che spero che qualcuno, prima o poi, si deciderà a fare, poiché è un bene dell’umanità.

A Pino mi univa anche l’amore per il gergo dei musicisti, la cosiddetta “parlèsia”. Un retaggio che fa parte della mia militanza napoletana, quando con un contrabbasso a tre corde cantavo con gli americani ai matrimoni e alle serate nei night, e ho imparato ad “appunire la parlèsia”, a parlarla, insomma.


Questo meraviglioso linguaggio, che pare sia stato inventato dai musicisti di bordo delle navi, che non volevano farsi capire dai camerieri e dal resto dei passeggeri, è un vezzo che conservo ancora e che mi ricordo di aver praticato con Pino Daniele in una puntata di Doc, perché anche lui aveva il gusto per questo linguaggio gergale, che rende noi musicisti napoletani quasi una comunità chiusa.
Il grande valore della “parlèsia” è che ti fa capire come con poche parole puoi significare tutto lo scibile e le cose essenziali della vita.

E infatti quando Pino ha chiamato la sua etichetta discografica “Bagaria”, che significa “grande bordello musicale”, io ho detto: «Eccolo là, appunisce la parlesia!». Anzi, mi meraviglio che non abbia fatto una canzone con una frase che certamente avrà detto mille volte: «Facimmo addó va» (e Just in mi?), che significa “chiudiamo, niamo”. E quindi adesso anche noi, come direbbe lui se fosse qua, facimmo addó va.



Questo testo è tratto dal libro “Pino Daniele. Qualcosa arriverà”, a cura di Giorgio Verdelli e Alessandro Daniele, edito da Rizzoli.


giovedì 7 maggio 2015

IL METODO DI ALLENAMENTO "JOSE MOURINHO"

Questo articolo raccoglie dei concetti chiave del libro “Questione di metodo Mourinho” scritto da Bruno Oliveira, Nuno Ameiro, Nuno Resende e Ricardo Barreto.
Metodo assolutamente innovativo creato da Josè Mourinho e Rui Faria, MAI copiato e sperimentato da nessun’altro allenatore.
                                                    IL METODO
Introduzione:
1 obiettivo: Propria metodologia di allenamento
2 obiettivo:  Coerenza procedurale metodo
3 obiettivo: Fornire prove scentifiche a sostegno del metodo
PRIMA PARTE: Evidenze empiriche
1-Una realtà metodologica e concettuale unica nel suo genere
“Rivoluzione metodologica” appena si arriva in una squadra.
Un metodo interamente subordinato agli schemi di gioco(uno principale, uno alternativo).
L’obiettivo è subordinare gli allenamenti allo stile di gioco.
Non tattica astratta, ma organizzazione e dimensione tattica=sovradimensione tattica.
La sovradimensione tattica è la cultura di gioco che si vuole impiantare.
Il modello di gioco è un insieme di riferimenti collettivi e individuali che corrispondono ai principi concepiti dall’allenatore.
I principi riguardano l’azione e il comportamento facendo si che i giocatori pensino come una squadra, e su questi e grazie a questi appunto si baserà l’organizzazione di squadra.
*schema non è sistema di gioco
*i principi di gioco non sono i principi metodologici. I principi di gioco(con tutti i sottoprincipi ed i sottoprincipi dei sottoprincipi) sono l’insieme dei riferimenti comportamentali che danno ordine all’idea di gioco.
I principi del gioco inventati rappresentano le parti di quel tutto che è il gioco.
Il programma annuale nonchè il mecociclo ed il microciclo prevedono l’introiezione gerarchizzata dei principi di gioco, dei sottoprincipi e dei sottoprincipi dei sottoprincipi.

Il calcio è totalità=Allenamento tecnico, tattico, fisico e psicologico non scomponibili.
Il gioco richiede tutte queste dimensioni, non è possibile misurarle e non è possibile individuarne il grado di sviluppo scomponendole.
Gli allenamenti sono incentrati su schema di gioco da ottenere.
I giocatori non devono essere ben preparati fisicamente, ma adattati fisiologicamente alla specificità degli allenamenti che si sostengono per soddisfare i nostri principi.
La forma non è fisica, la forma è sportiva. Organizzazione e talento nell’esplorazione di un sistema di gioco.
Non bisogna credere ai picchi di forma o nell’alternanza di volumi o nella mole di lavoro(perché il calcio è una competizione che dura 10 mesi)
Bisogna credere solo nella intensità.   Lavorare con massima intensità.
Intensità=complessità. Ossia esigenze di concentrazione decisionale=Intensità di concentrazione.
Importanti durante la stagione i principi della super compensazione e del recupero.
Il nostro obiettivo standard è svolgere allenamenti di 85′-90′ senza momenti morti con transizioni di situazione in situazione effettuate tramite recupero rapido e attivo.
Il momento di “massimo rendimento” coincide con un ottimo livello di espressione collettiva e individuale dello standard di gioco desiderato. Tenere alto questo standard.
Obiettivo finale è il gioco=allenarsi significa giocare.
Elemento essenziale: organizzazione di gioco.
Bisogna avere ben chiaro un modello e i principi che lo regolano, quotidianamente si ha una espressione radicale di questi principi alla ricerca di un miglioramento nella qualità di gioco.
Recupero è mentale non fisico.
Se tutto è subordinato al gioco si manterranno ritmi, pressing, attacco, difesa ecc ecc.
2-Note sull’allenamento tradizionale: come lavorano tutti
Fase di condizionamento iniziale con la primissima parte incentrata sul lavoro fisico(atletico e palestra). Noi sin dal primo giorno lavoriamo sulla tattica, sui principi e sull’intensità.
Allenamenti individualizzati.      Io no.
Allenamenti di lunga durata(100′-120′) con molti percorsi fisici senza palla.
In fase preparatoria lavoro fisico al mattino e lavoro tattico al pomeriggio quando le condizioni psico-fisiche sono precarie. Lavoro tattico organizzativo subordinato a quello fisico.  Io parto dal presupposto contrario.
Programma specifico. Per me la parola specifico ha il significato opposto.
Diffidare di chi lavora “per finta” con il pallone perché poi vi è sempre una parte fisica separata.  Io voglio utilizzare sempre in concetto di introiettare principi e organizzazione.
Allenamento integrato: integrazione di fattori ritenuti rilevanti e meritevoli di essere sviluppati, valutati a posteriori e controllati periodicamente(test fisici).  Io non considero i fattori allenabili ma voglio allenare la totalità del calciatore.
I fattori sono in ordine fisico da sviluppare e costituiscono la base del rendimento.   Per me la base del rendimento è l’organizzazione di gioco e la sua messa in pratica richiamerà la dimensione fisica, sempre subordinata al sistema di gioco.
*Noi abbiamo l’obiettivo di introiettare gerarchicamente i principi di gioco che danno corpo ad un determinato sistema di gioco e non consideriamo nessun esercizio fisico complementare volto al potenziamento di capacità condizionali.
Tutti sostengono che nel precampionato si immetta la benzina per sostenere buona parte della stagione.   Per me non c’è nulla di più sbagliato.
Perché generalmente la “solidità” “l’amalgama” e tutto ciò che riguarda la tattica viene raggiunto sempre dopo un certo periodo della stagione? Perché nel precampionato si lavora sul fisico e poco sull’organizzazione.
In Sintesi:
*Allenamento tradizionale: Allenamento fisico, lavoro aerobico di base nel precampionato, binomio volume-intensità, percorsi ed esercizi articolati in stazioni, esercizi complementari per capacità condizionali, allenamenti di gruppo,partitelle di metà settimana, palestra(tranne che nel recupero di infortunati), test fisici periodici, utilizzo di vari attrezzi come palle mediche ecc.
Io sono totalmente estraneo a tutto ciò.
SECONDA PARTE: Sfatare le credenze stereotipate del calcio
-Sfatare il mito della priorità della condizione atletica in precampionato: la maggior parte delle squadre lavorano come riportato sopra, noi cerchiamo sin dal primo giorno di applicare il nostro metodo basato sul modello di gioco e sui principi che organizzano la squadra, proprio perché in precampionato si può incidere fortemente su tale aspetto. Dunque l’aspetto fisico e mentale viene subordinato alla organizzazione di gioco. Le componenti fisiche vengono allenate con esercizi che simulano azioni di partita (ad esempio esercizio tecnico-tattico che comprende salti-arresti-cambi direzione allena la forza). Le amichevoli servono per il rapporto allenatore-giocatori.
-Sfatare il mito della forma fisica: il 99% delle persone attribuiscono tutto alla forma fisica. Per me alla base del rendimento c’è l’organizzazione di gioco e dunque la “forma sportiva” significherà giocare bene e interpretare il gioco sul quale ci si allena. Ciò che determina la buona o la cattiva forma è il modo con cui la squadra organizza il gioco. Ecco perché io non uso test fisici.
-Sfatare il mito dei “picchi di forma”: Sono in tantissimi a pensare che l’allenamento fisico sia fondamentale e vada pianificato in relazione ai momenti chiave della stagione tenendo conto del cosiddetto effetto ritardato dei carichi cercando di raggiungere un picco di forma in corrispondenza di determinati momenti. Per me non c’è nulla di più sbagliato. Io sostengo il bisogno di avere un alto livello di risultati in relazione al gioco praticato. Il livello di rendimento deve essere alto lungo tutta la stagione, come? Lavorando apportando modifiche tecnico-tattiche in relazione alla precedente gara e in previsione della successiva. Fisicamente gli obiettivi sono identici per tutto l’anno, per ogni micro-ciclo. Obiettivo far adattare i calciatori ai ritmi imposti. Bisogna costruire una dinamica settimanale, non più lunga!!
*NB: Essendo l’obiettivo l’organizzazione si metterà in pratica “il principio superiore di specificità” raggiunto pradgmatizzando il frazionamento ossia accertandosi dell’acquisizione dei principi e di tutti i sottoprincipi che formano il gioco. La dinamica di gioco è parte integrante della dinamica di allenamento.
-Sfatare il mito che il volume è più importante dell’intensità: Nell’allenamento tradizionale si da importanza alla quantità di lavoro fisico, ossia al volume, per ottenere un sostegno aerobico. Io voglio lavorare con intensità e per intensità intendo intensità di concentrazione e per volume intendo volume di intensità di concentrazione. Dunque pensare e prendere decisioni veloci. Concentrazione elevata=intensità elevata. Intensità dunque non è consumo energetico ma è complessità, soprattutto neuronale.
NB!!!:   Ecco il punto fondamentale: la “concentrazione decisionale” che determina in base alle esigenze esecutive in base alle richieste in termini di consumo mentale-emotivo.
Gli allenamenti vanno strutturati in base ad un programma di intensità massima relativa che dipende dal suo obiettivo e dal suo grado di complessità, in base alla azione.
Per volume intendiamo volume di intensità massime relative ossia il volume dei principi di gioco che rappresenta l’introiezione gerarchizzata dei principi di gioco. Tale volume per me è uguale ogni settimana e costituisce il nucleo fondamentale del gioco da attuare.
DUNQUE ALLA BASE DEL MIO METODO VI È UN PROGRAMMA DI ALLENAMENTO IDENTIFICATO SULLE INTENSITÀ MASSIME RELATIVE E SU UN VOLUME DI PRINCIPI DI GIOCO CHE È DETERMINATO DALLA QUANTITÀ DI TALI INTENSITÀ. CIÒ CONSENTE DI MANTENERE UN LIVELLO DI RENDIMENTO COSTANTE

-Sfatare il mito delle capacità condizionali: Le capacità condizionali per tutti sono la base dell’allenamento visto che sono allenabili. Io vedo il gioco nella sua totalità e facendo ciò che è sopra scritto spostiamo la sotto dimensione fisica ai livelli di cui il nostro gioco ha bisogno. Per me fisicamente ciò che conta è il recupero e la supercompensazione. Alternare gli allenamenti in maniera specifica, alternando le densità dei diversi programmi senza perdere di vista il principio del gioco. Questo è “il principio dell’alternanza orizzontale in specificità” ossia cambiare il livello nel quale i giocatori apprendono i principi di gioco sempre da compiersi settimanalmente.
Associare ciò al “principio della progressione complessa”, progressione che si sviluppa con l’introiezione dei principi di gioco e con la differenziazione dello sforzo durante la settimana garantendo una distribuzione logica delle unità di allenamento.  Utilizzare il mercoledì, giovedì e venerdì per lavorare incisivamente sulla crescita della squadra.
*Mercoledì: obiettivi in regime di alta tensione specifica. Visto che il recupero mentale-emotivo potrebbe essere ancora incompleto sarà l’allenamento discontinuo mettendo a punto esercitazioni il cui rapporto sviluppo-recupero permetta un riposo significativo. Come mettere in pratica? Giocando con lo spazio, la durata ed il numero dei calciatori per mettere a punto sempre contrazioni muscolari eccentriche efficaci. Velocità di contrazioni, frenate, accelerazioni, cambi di direzione,salti arresti. Le contrazioni servono per superare le difficoltà relative al suo gioco, un mezzo per far assimilare i principi di gioco. Infatti il significato di forza per me è pressare, rubare palla, fermarsi, cambiare direzione, staccare per colpire di testa e và contestualizzata in quelle che sono le azioni specifiche durante la partita. La forza tecnica dunque è la capacità di svolgere azioni tecnico-tattiche ad altissima intensità e velocità. Lavorare in accordo con le caratteristiche del nostro gioco. Il giocatore deve acquisire tali capacità. Al mercoledì dunque ci concentriamo sui sottoprincipi e sui sottoprincipi dei sottoprincipi ossia su obiettivi meno complessi proprio a causa delle scorie emotive della domenica. Importanza dei sottoprincipi.
*Giovedi: obiettivi in un regime di dinamica specifica. Si utilizza il principio dell’alternanza orizzontale in specificità con un aumento della durata,spazi più ampi, maggior numero di giocatori coinvolti e cinsi sofferma sui principi e sui fondamenti del gioco ossia possesso, organizzazione difensiva, pressione, possesso a riposo e verticalizzazioni. Simulare ciò che avviene in partita. Dunque è una seduta più dispendiosa
*Venerdi: obiettivi in regime di elevata velocità di contrazione. Si passa a lavorare sul gioco con contrazioni dunque veloci, di breve durata e a tensione ridotta. Per far ciò le azioni non saranno eccessivamente impegnative. Si lavora sui sottoprincipi e vari sottoprincipi  con esercizi tattici poco complessi e lavorando sulla velocità di esecuzione. Sempre il venerdì si inizia allenare in funzione dell’avversario da incontrare.
NB:  Dal punto di vista neurobiologico soltanto 1/3 di realizzazione di qualsiasi azione di gioco viene impegnato nella esecuzione. I restanti 2/3 sono occupati dalla presa di coscienza e dalla decisione. Ridurre il tempo totale implica la riduzione di ciascun tempo parziale. Il mercoledì e il giovedi si lavora sui primi 2/3 il venerdì sulla esecuzione. Le sperimentazioni relative al modello di gioco e la componente tattica incidono su quei 2/3. La mia metodologia si propone di stimolare i sistemi feed-foorward anticipando il futuro e ridurre la durata di quei 2/3. Infatti proprio la presa di coscienza e la decisione fanno crescere la consapevolezza tattica e facilita l’analisi contestuale. La messa in pratica incide su quei 2/3 e dunque sulla velocità di gioco. Velocità di gioco e velocità del gioco sono concetti estremamente diversi, la prima è legata alla velocità mentale di anticipare, la seconda è legata alla veloce esecuzione dei movimenti. Io perseguo la velocità di gioco.  Dunque bisogna familiarizzare con gli eventi, con il gioco per favorire l’identificazione. Allenando la squadra secondo il nostro modello di gioco ridurrà il tempo necessario per eseguire i 2/3. Invece sul restante /3 ci si sofferma il venerdì (es principino sottoprincipi della finalizzazione).  Da qui è importante che la palla circoli molto rapidamente attraverso l’importanza delle posizioni….L’allenamento serve per far capire al calciatore il suo standard di velocità nel quale riesce ad essere efficace.
IL SISTEMA P.A.D RISULTA FONDAMENTALE OSSIA LO SCHEMA PERCEZIONE-ANALISI-DECISIONE
-Sfatare il mito del recupero convenzionale. Il recupero come noto è fondamentale e ha due aspetti fondamentali 1)fisico 2)emotivo-mentale a mio avviso centrale.  La fatica emotivo-mentale è dovuta alla grande concentrazione utilizzata sino ad un dato momento. Dunque definisco fatica tattica quella che subentra quando i giocatori non riescono più a concentrarsi perché stanchi di farlo a causa della grande concentrazione decisionale richiesta. La fatica non dipende tanto dal fisico ma più che altro dalla concentrazione decisionale richiesta, dalla complessità degli esercizi. Intensità=intensità di concentrazione.  Dunque risulta importantissima l’abitudine (diversa dalla routine e dalla stereotipazione), il mio obiettivo è di creare abitudini ossia determinare una economia neurobiologica salvaguardando la triade corteccia-corpo-azione dalle sollecitazioni complesse. L’abitudine a pensare permette che l’attenzione decisionale sia circoscritta a calcolare i problemi particolari di ogni situazione ossia del “qui ed ora”.  La concentrazione si allena creando esercizi in cui i calciatori sono costretti a pensare e a comunicare tra loro,e creando esercizi complessi(non faticosi) che possano aumentare la concentrazione.
1)Recupero nel microciclo settimanale: Adattare programmi tenendo presente il rapporto sviluppo-recupero. Quando vi è una partita a settimana il lunedì sarà di recupero passivo, il martedì sarà di recupero attivo in specificità. Dal mercoledì alla rifinitura si passa dal generale al particolare lavorando su grandi principi e sui sottoprincipi con la rifinitura incentrata sul lato strategico. Quando si gioca più volte in settimana si lavora su grandi principi e il giorno prima utilizzando 11vs0 o 11vs11 con poco agonismo.
2)Recuperare in specificità: Ossia recuperare sfruttando il proprio modo di allenarsi. Giochi di posizione, possesso palla, movimenti avvicinamento-allontanamento, senza arrivare al limite. Il recupero è subordinato alla messa in pratica della forma di gioco desiderata.
3)Recuperare in partita: Riposare con il pallone durante il match. Possesso palla, gioco di posizione, occupazione razionale spazi. Ossia un possesso palla fine a se stesso che ha l’obiettivo di far recuperare in partita
Allenamenti durano max 90′
* Più ci si avvicina alla partita più il dispendio mentale-emotivo deve diminuire di intensità perché la fatica centrale del SNC è decisiva in partita.
-Sfatare il mito dell’allenamento integrato: Introdurre il principio metodologico delle propensioni che ha l’obiettivo di porre attenzione sugli aspetti del gioco che si desidera mettere in pratica in modo che venga assimilata, acquisita e variata all’interno dei giocatori. Scegliere determinati esercizi anziché altri per cercare di raggiungere “il tutto”. Gli esercizi devono creare meccanismi e non essere meccanici. La struttura degli eventi di allenamenti deve avere la struttura degli eventi che ci sono in partita.
In sintesi l’allenamento integrato è un inganno perché ha gli stessi obiettivi dell’allenamento tradizionale ma utilizza il pallone come deterrente.
-Sfatare il mito del controllo quantitativo: NO ai test fisici. La valutazione quantitativa viene fatta nella sua globalità durante ogni singolo esercizio di ogni singola unità di allenamento. Allenamenti devono creare adattamenti attraverso l’introiezione gerarchizzata dei principi di gioco. Bisogna quantificare a priori e poi a posteriori non con l’ausilio di test. Quantificare, dunque, la qualità dell’allenamento.
-Sfatare il mito dei carichi: Cercare uno sviluppo qualitativo secondo quanto scritto fino ad ora e non quantitativo attraverso carichi di lavoro.
-Sfatare il mito dell’allenamento individualizzato: Essendo la mia preoccupazione la squadra il concetto dell’allenamento individualizzato non lo concepisco. Il mio obiettivo è introiettare i principi di gioco nei singoli e nella squadra.
-Sfatare il mito dell’allenamento meccanico: Spesso negli allenamenti ci si sofferma sugli automatismi cadendo nella mania del pilota automatico. Dunque i feedbacks negli allenamenti sostituiscono la fase in cui i giocatori devono pensare. Ripetizioni stereotipate e numerose prendono il sopravvento. Il mio obiettivo è creare abitudini(non routine) e dare un tema che i giocatori attraverso il pensiero mettono in pratica dinamiche automatiche, automatismi con ampi margini di libertà. Parliamo di fenomenotecnica cioè un processo che mira all’acquisizione di principi legati al presente. Non basta acquisire il “saper fare” ma occorre “consapevolezza relativa rispetto a questo saper fare” che si ottiene con la partecipazione attiva dei calciatori invogliata da un metodo di tipo induttivo.
Bisogna creare un rapporto tra mente-abitudine attraverso la scoperta guidata. Bisogna tracciare linee e traiettorie sullo sfondo di obiettivi finali e attuare(l’allenatore) il metodo induttivo attraverso la scoperta guidata e il problem solving.
*Dialogo controllato:bisogna attuare la scoperta guidata facendo arrivare i giocatori dove io voglio. Una sorta di manipolazione di emozioni. I giocatori devono essere immersi e protagonisti attivi in quello che fanno.
-Sfatare il mito del cambiare tattica a seconda dell’avversario: A mio avviso la tattica è l’insieme dei comportamenti che voglio ottenere dalla squadra, ciò che la squadra deve mettere in pratica, l’insieme dei principi che danno forma al gioco. Le mie squadre devono colpire gli avversari nei loro punti deboli, non adattarsi a loro. Dobbiamo scommettere sul nostro modello di gioco e potenziarlo settimanalmente, starà poi allo staff individuare punti deboli degli avversari per poi poterli colpire. Non credo nei sistemi creati a tavolino in ufficio a seconda dell’avversario. Una squadra che cambia spesso sistema di gioco è una squadra senza organizzazione di base. Bisogna arrivare ad un equilibrio tra la conoscenza dell’avversario e la nostra forma di gioco senza che le informazioni sugli avversari inducano trappole (i poli d’attrazione) modificando la nostra filosofia. A tale equilibrio si arriva con la comunicazione e con le abitudini di allenamento.
TERZA PARTE: L’accento sulla trasgressione
1-La singolarità del metodo è che è assolutamente distante dall’allenamento tradizionale e da quello è integrato(!!) ma è quello che io chiamo “PERIODIZZAZIONE TATTICA”. Essendo un metodo nuovo deve essere radicato dei giocatori.
2-Il pensiero che sostiene tale metodo è che per tutto io intendo la nostra forma di gioco, il nostro modello, i nostri principi. E la disciplina ed il rigore tattico sono conseguenze psicologiche di questo tutto, ossia la sovradimensione tattica. La periodizzazione tattica serve per indurre questa conoscenza e questa disciplina del nostro modello di gioco, ma la vedremo più avanti.
*Quando c’è il rischio che la squadra nella successiva partita possa rilassarsi l’obiettivo è aumentare la difficoltà degli esercizi in allenamento in modo da rendere i giocatori meno sicuri dei propri mezzi.
3-*Allenare è mettere in pratica una idea di gioco segmentandola in parti e gerarchizzandole potenziando le restanti dimensioni del nostro gioco nella maniera che io voglio.
4-La tattica è l’insieme dei comportamenti che la squadra deve mostrare in campo, è l’insieme dei principi che danno corpo al nostro modello di gioco, è una cultura di comportamento.
Dunque introiezione gerarchizzata dei principi di gioco=periodizzazione tattica. Obiettivo è sviluppo collettivo attraverso la ripetizione settimanale.
5-NB questo metodo a mio avviso è proponibile anche nei settori giovanili.
6-Il calcio è uno sport aciclico, quindi potenzialmente “casuale”. Io sostengo che abbia una base scientifica e che l’obiettivo attraverso la metodologia di allenamento è di ridurre la casualità. Pertanto distinguiamo il livello dei dettagli dai principi.
Per costruire ossia per concepire sviluppare ed applicare serve una base scientifica, nella costruzione delle idee.
7-I tratti distintivi. Attraverso la nostra metodologia abbiamo l’obiettivo di introiettare nei giocatori la perfetta conoscenza e applicazione situazionale delle 4 fasi di gioco. È importante avere il predominio del pallone per poter controllare il gioco. La circolazione della palla deve essere veloce e questo avviene solo se si ha un corretto gioco di posizione ossia ogni giocatore deve sapere dove si trovano i compagni. Costruire una struttura geometrica che gli consenta di anticipare l’azione. Allargare gli spazi quando si attacca e stringere le linee difensive quando si difende, aggredire immediatamente quando si perde il pallone. Devono esservi almeno 4-5 giocatori il cui posizionamento deve essere basico,per altri è dinamico.
Importanza della comunicazione e della cooperazione in campo.
Le la squadra deve sempre essere corta e in tal senso attuando una pressione importante bisogna saper gestire al meglio le transazioni o ripartente trattandole come una delle fasi di gioco e non facendone un modello vero e proprio!!!!
Difendere bene vuol dire difendere poco non fare densità o marcare a uomo i giocatori avversari, si difende tenendo il pallone le posizione ed una linea di aggressività alta. Difendere lontano dalla propria porta ovviamente attraverso tutti gli 11 giocatori.
NB difendere a zona non vuol dire attendere, ma attuare un “pressing a zona” che consenta il recupero rapido del pallone dopo una ottimale copertura degli spazi. La distribuzione del pressing viene fatta in base al posizionamento degli avversari. Conoscere l’avversario e non adattarsi, adattare il modo di fare possesso agli avversari non il nostro sistema di gioco. Quando si è in difficoltà o in fatica va fatta la cosa difensivamente più semplice: abbassare il baricentro. Importanti le capacità di leadership di alcuni giocatori che indirizzano l’azione difensiva collettiva.
Dunque difendere a zona sarà la base per attaccare continuativamente.
Essendo questo modo di giocare dispendioso è importante che i giocatori sappiano, una volta conquistata o riconquistata la palla, se sono in grado di attaccare o se devono gestire la palla attraverso un possesso prolungato. La transazione difesa-attacco è solo una accezione del gioco offensivo. Dunque bisogna indurre i calciatori a pensare a renderli consapevoli a conoscere il loro corpo per sapere se “riposarsi” con il pallone o senza, se e quando attaccare velocemente, se e come difendere.
8-Ponti per la sostenibilità scientifica del metodo.
Essendo il calcio uno sport in cui “il qui ed ora” risulta fondamentale, alcuni studi sostengono che le intenzioni e l’agire dei calciatori spesso sono inconsce ossia non del tutto volontarie: il giocatore agisce e attua di conseguenza. Io voglio (come detto prima) creare abitudini ossia un saper fare che si acquisisce durante l’azione con il metodo induttivo e la scoperta guidata. Allenando in specificità si riescono a collegare anche se non totalmente le intenzioni previe con le intenzioni in atto. Le intenzioni previe (immagini mentali) si acquisiscono con la periodizzazione tattica e le intenzioni in atto si migliorano con l’esercizio di allenamento. Facendo ciò attraverso, la periodizzazione tattica, il giocatori avrà continui auto-feedbacks positivi o il sistema feed-forwards attivato.
L’apprendimento e l’acquisizione di conoscenze e di comportamenti specifici e relativi alle situazioni è fondamentale, allenare=insegnamento-apprendimento attivo!
Importanza delle emozioni nel processo decisionale che sottolineano alcuni studi, importanza della relazione emozionate tra decisione e conseguenze.
*Teoria del marcatore somatico Antonio Damiaso libro pag. 171-177.
*Teoria sul meccanismo secondo la cibernetica libro pag. 183-184.
In sintesi l’obiettivo da porsi è quello di essere una squadra organizzata. Attraverso il gioco collettivo i giocatori devono saper interpretare correttamente “il qui ed ora”. Tutto è una questione di comportamenti che si ottengono con l’introiezione gerarchizzata dei principi e sottoprincipi di gioco, lavorando su situazioni di gioco(sovraprincipio di specificità). Gli allenamenti hanno ripartizione settimanale tenendo conto del recupero della progressione e della alternanza.
L’obiettivo è di creare abitudini ossia la consapevolezza del saper fare tenendo alto il livello di rendimento giocando bene. È fondamentale il contenuto dei principi di gioco inerenti ad ogni esercitazione ed il rapporto che si tiene con questi.
Cerco qualità allenando in specificità, allenare per giocare sempre meglio.
Articolo originale http://metodocalcio.com/2013/09/12/il-metodo-di-allenamento-jose-mourinho/

«Un brano inedito e il museo: rivive mio padre Pino Daniele »


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ANTICIPAZIONE “CORRIERE DELLA SERA”: LA CANZONE, COMPOSTA NEL ‘75, FARÀ PARTE DI UN ALBUM LIVE

Il figlio Alessandro: esposizione a Napoli, sarà patrimonio dell’Unesco

Chissà se parlando con il suo amico Troisi avrebbe scherzato più o meno così: «Sai che c’è Massimo? Tu hai ricominciato da tre, io invece ricomincio da zero». Sì, da quell’anno zero che segnò l’inizio dell’avventura artistica di Pino Daniele. Perché adesso, dopo 40 anni, un brano inedito registrato alla meno peggio su una musicassetta arancione, torna in vita insieme con il suo autore, il cui cuore ha smesso di tenere il tempo la sera del 4 gennaio.
Riprende a suonare per il suo pubblico, il Mascalzone latino, e lo fa con il doppio cd «Nero a metà live» (in uscita il 9 giugno e dal 12 maggio in pre-order su tutti i digital store) che è la registrazione integrale dell’ultimo concerto che tenne il 22 dicembre del 2014 al Forum di Assago-Milano. E nell’album i suoi fan troveranno anche un pezzo che il musicista incise nel salotto di casa del suo amico percussionista Rosario Jermano.
Era il 1975: Pino fece ascoltare quattro provini a un discografico, il quale intuì le potenzialità di quel sound e decise che tre di quelle canzoni sarebbero finite nel disco d’esordio del bluesman napoletano. Una, «’O pusteggiatore», rimase fuori dall’album «Terra mia»: si ascolterà per la prima volta in «Nero a metà live» con un titolo diverso, «Abusivo», e con un arrangiamento nuovo di zecca curato da Tullio De Piscopo, Ernesto Vitolo e Gigi De Rienzo.
«Oggi vede tutto con occhi diversi e sono sicuro che approva il lavoro che abbiamo fatto», racconta Alessandro Daniele, il figlio trentacinquenne di Pino, che proprio fa fatica a declinare i verbi al passato parlando di quel musicista di cui è stato anche un collaboratore speciale per quindici anni. «Con lui mi sentivo dieci volte al giorno e ancora oggi, quando devo fare delle scelte, istintivamente mi viene di chiamarlo». E probabilmente lo avrà chiamato di «nascosto» per chiedergli se potevano cambiare il titolo al brano: «È nato per caso, forse perché ci è sembrata una cosa abusiva modificare la struttura originale del brano», sorride sereno.
Una serenità che gli viene dalla consapevolezza che quella tempesta seguita alla morte del padre è ormai una leggera brezza lontana: «Ora la famiglia è più unita. E nella “Fondazione Pino Daniele” che stiamo per varare lavoreremo tutti noi figli». D’altronde dovrà esserci molta serenità nel gestire la Onlus che in agenda ha diversi progetti, tra i quali ce n’è uno di cui Alessandro sente una certa responsabilità: «Mio padre studiava musica almeno tre ore al giorno. Ecco, vorrei portare nei conservatori il suo metodo, la sua filosofia. Assegneremo borse di studio ai ragazzi di talento che non possono permettersi di pagare una retta; organizzeremo un concorso internazionale; lavoreremo con gli ospedali pediatrici per finanziare la ricerca e per garantire ai bambini malati terminali le apparecchiature necessarie per restare a casa con i familiari».
«Yes I know my way», cantava Pino, e anche suo figlio Alessandro conosce la strada che vuole imboccare per far rivivere la figura artistica (e non solo) di suo padre: «L’anno prossimo nascerà all’interno del Mamt di Napoli, il museo mediterraneo dell’arte, della musica e delle tradizioni, un’esposizione permanente dedicata a papà. Ci saranno i suoi strumenti musicali, i nastri originali delle incisioni, i video dei concerti, materiali inediti, visite guidate. E tutto diventerà patrimonio dell’Unesco. Vorremmo realizzare un piccolo teatro in cui proiettare degli ologrammi per rivedere mio padre in forma tridimensionale nei primi Anni 90 mentre suona la chitarra».
Alessandro ha condiviso tante cose con Pino, anche le sue scelte d’amore: «Con lui c’era un rapporto d’amicizia. Ed è chiaro che, dopo due separazioni, se ne parlava tanto. Io gli dicevo: “Guarda, che se tu sei convinto di quello che stai facendo, e lo fai con il cuore, io sono con te”». Tra i due un legame stretto, che Alessandro desidera ricordare quotidianamente. Il 15 maggio riaprirà il Tuscany bay, il complesso balneare realizzato dall’autore di «Napule è» a pochi minuti da Orbetello: «Lì c’è anche il jazz bar dove faremo musica dal vivo. Tutti i giorni, al calar del sole, papà faceva sentire in spiaggia “Nessun dorma”, quella suonata da Jeff Beck. Io farò mettere quella eseguita da papà. Così il tramonto sarà sempre dedicato a lui». E Pino non dovrà mai chiedere al figlio: «Alessandro, dimmi cosa succede sulla Terra». 

di Pasquale Elia

venerdì 17 aprile 2015

"I campi in Aprile": Ligabue racconta un partigiano

"I Campi in Aprile" è uno dei quattro inediti - insieme a "C'è sempre una canzone", "A modo tuo" e "Non ho che te" - contenuti nel live "Giro del mondo", composto da doppio CD + DVD.
La canzone è ispirata alla storia di Luciano Tondelli, un partigiano emiliano morto a 19 anni a dieci giorni dalla Liberazione, il 15 aprile del 1945. Come si legge sul sito dell'ANPI (Associazione Nazionale Partigiani d'Italia) l'8 giugno del 1944 Tondelli aveva lasciato la sua casa di Collagna, in provincia di Reggio Emilia, per sottrarsi alla chiamata alle armi della Repubblica di Salò e raggiungere le formazioni partigiane.
Lo stesso Ligabue ha raccontato la genesi di questo brano un po' folk: 
Un giorno a Correggio ho visto un cippo con un nome: Luciano Tondelli. Morto a meno di 20 anni, a 10 giorni dalla Liberazione. Mi è venuta voglia di scrivere una canzone che provasse a raccontare il punto di vista di un ragazzo che sceglie di dare tutto se stesso, anche la vita, per difendere la libertà di cui godiamo ancora oggi.

Testo I Campi In Aprile - Ligabue

Se fossi lì in mezzo
avrei novant'anni
avrei dei nipoti
con cui litigare
ma ho fatto un scelta
in libera scelta
non credo ci fosse altra scelta da fare
scelta migliore

Ho avuto una vita
nessuno lo nega
me ne hanno portato via il pezzo più grosso
se parti per sempre
a neanche vent'anni
non sei mai l'eroe
sei per sempre il ragazzo

I campi in aprile
promettono bene
se questa è la terra
è proprio la terra che non lascerò
ho avuto per nome
Luciano Tondelli
col vostro permesso io non me ne andrò

Se muori in aprile
se muori col sole
finisce che muori aspettando l'estate
a me è capitato
a guerra finita
mancavano solo dieci giornate

I campi in aprile
promettono bene
son nato in un posto
cresciuto in un posto che non lascerò
c'è un 15 aprile
accanto al mio nome
col vostro permesso io non me ne andrò

Voi non mi chiedete
se rifarei tutto
ho smesso di farmi la stessa domanda
qualcuno mi disse
ricorda ragazzo
la storia non cambia se tu non la cambi

I campi in aprile
promettono bene
se questa è la terra
è proprio la terra che non lascerò
Luciano Tondelli
è ancora il mio nome
sappiate comunque che non me ne andrò

Se fossi lì in mezzo
avrei novant'anno
avrei dei nipoti con cui litigare
a cui raccontare

giovedì 2 aprile 2015

Lezione di cinema di Nanni Moretti al BiF&st2015

Bari - Si è conclusa con una standing ovation al teatro Petruzzelli di Bari, la lezione di cinema di Nanni Moretti nell’ambito del festival BiF&st2015. Dalle 9 del mattino, nell’ordine, il pubblico ha assistito alla proiezione del film del 1993 “Caro Diario”, alla lettura da parte dello stesso Moretti dei diari che scrisse durante la lavorazione del film, e a un dibattito tra il regista e il suo amico critico cinematografico, il francese Jean Gili. Non una parola sull’ultimo film “Mia Madre” che sarà proiettato in Italia dal prossimo 16 aprile

Moretti, prima di mettersi al leggio e leggere i diari, ha detto «due parole»:
«Io ho cominciato a girare Caro diario senza rendermi conto che stavo realizzando un altro film rispetto a quello che in realtà volevo fare. Stavo pensando a un altro film su uno psicanalista. Era metà agosto 1992 a Roma e mentre avevo a che fare con quella malattia incurabile… volevo anche fare un corto con me in vespa che andavo in giro per tutto il giorno con una troupe risicata: eravamo cinque persone. Ho girato quel corto perché sapevo che l’avrei fatto vedere nel mio cinema Nuovo Sacher di Roma prima di un film vero e proprio. Dopo aver visto come era venuto bene quel materiale, ho deciso di girare tutto un film così… con quella leggerezza e irresponsabilità. Ho abbandonato il film solido e strutturato che avevo in mente e ho deciso di fare quel film sulle isole e la mia malattia. Nell’estate successiva, domenica 15 agosto 1993, ho girato altre scene che poi non ho montato perché avevo preferito, per esempio nel momento dell’arrivo al monumento funebre di Pasolini all’Idroscalo di Ostia, le scene girate nell’estate del 1992. Nei diari che vi leggerò torna spesso Heimat 2 di Edgar Reitz. Era un film che in quel periodo mostravo al cinema Nuovo Sacher composto da 13 film di due ore l’uno. Nella primavera del 1993 ho mostrato quel film al pubblico del Sacher. Si creò una sorta di dipendenza nel pubblico. Heimat 2 sono tredici film ambientati a Monaco negli anni ’60. Lo consiglio a tutti gli appassionati di cinema, di musica, di arte, di letteratura…

Nel video che segue, una sintesi della lettura dei “diari di Caro Diario


Dibattito tra Nanni Moretti e il critico Gili
Moretti: Jean Gili è un critico francese con cui sono amico da circa 30 anni. Conosce molto meglio di me il mio cinema come certi spettatori appassionati che mi incontrano, fanno una battuta, mi strizzano l’occhio…e io non capisco niente. Hanno citato un mio film e io, purtroppo, non capisco a cosa si riferiscono.

Gili: Vogliamo partire ricordando cosa accadde nel dicembre 1976?

Moretti: Usciva in un cineclub romano -il Filmstudio- Io sono un autarchico. All’epoca ce n’erano tanti. Doveva essere programmato lì per due giorni e poi invece è stato programmato per molti mesi. Un caso fortunato. Un grande successo all’interno del piccolo mondo dei cineclub.

Gili: Tu stesso lo proiettavi con un proiettore da salone…

Moretti: Ma parliamo di Caro diario!

Gili: Perché hai deciso di scegliere Caro diario con questa introduzione monologo in cui ricordi la lavorazione?

Moretti: Il film non l’ho scelto io. L’ha scelto il Festival di Bari. Per quanto riguarda la lettura dei miei diari, volevo far vedere al pubblico cosa c’è nella lavorazione di un film. E’ una lettura che ha senso fare di fronte a chi ha appena visto il film. Parlo di ambienti, scene, inquadrature, isole e se hai appena visto il film ti può far piacere ascoltare le impressioni di un regista e sul perché sta facendo il film. E’ importante che il pubblico sappia che alcune cose sono venute un po’ per caso come quando io ballo al tempo di Silvano Mangano nella scena di Anna (1951) di Alberto Lattuada. Era una riserva. Io avevo scelto un musicarello con Caterina Caselli dal titolo Perdono (1966) ma la Titanus non mi diede il permesso. Dovetti ripiegare su Anna di Lattuada con la Mangano. Mi faceva piacere ricordare l’aneddoto al pubblico. Per quanto riguarda la musica… ho parlato del coinvolgimento di Wim Mertens e del fatto che dopo non mi fossi trovato bene tanto da dover ripiegare all’improvviso su Nicola Piovani, il quale è tornato e ha fatto musiche bellissime. Per il primo capitolo sapevo che avrei dovuto scegliere musiche di repertorio: da Keith Jarrett a Leonard Coen. Ho raccontato di come il film sia nato per caso e di come non mi fossi reso conto che stavo girando il mio nuovo film quando con 4 persone di troupe quella domenica d’estate a Roma incontrammo Jennifer Beals perché era lì con il suo compagno Alexander Rockwell il quale era nella capitale per presentare un suo film per la selezione di Venezia. Ero imbarazzatissimo quando la incontrai e le chiesi di fare un cammeo nel mio cortometraggio perché all’epoca pensavo che sarebbe stato ancora un corto. Mi ricordava i miei inizi in Super 8 in cui nessuno al mondo si aspettava il nuovo film di Nanni Moretti. Caro diario è stato girato con incoscienza in senso positivo. Poi alla fine alle volte… è il frutto anche di alcune casualità. Devo dire che il fatto di arrivare impreparato alle riprese… non mi è capitato sempre. Ci sono dei film che io assolutamente sentivo di dover girare con una sceneggiatura solida e strutturata. Penso a La messa è finita (1985) e all’ultimo film che ho fatto Habemus Papam (2011). Invece Palombella rossa (1989), Caro diario (1993) e Aprile (1996) li ho girati senza una sceneggiatura precisa ma per frammenti sperando di colmare quei buchi narrativi. E’ un modo di lavorare più interessante ma anche più faticoso. A differenza di altri film in cui avevo bisogno di una sicurezza.

Gili: Riguardavo gli appunti e mi sono imbattuto nel tuo ricordo di quando vai a Cinecittà sulla tomba di Federico Fellini. Ho trovato per puro caso un’intervista a Fellini uscita su Le Monde nel marzo 1993, e quindi pochi mesi rispetto alla sua morte, in cui lui dice: “Mi fa piacere sapere che esiste nel cinema italiano un giovane Savonarola rispetto a me che sono un vecchio papa corrotto”…

Moretti: Posso accogliere con serenità questa tua affermazione perché sono sicurissimo che Fellini non abbia mai visto un mio film. Era totale il disinteresse di Fellini per i film degli altri. Io non l’ho mai costretto a vedere un mio film. La sua dimensione di spettatore cinematografico era inesistente. Non gli interessavano. La sua dimensione di lettore di libri, invece, era enorme. Forse con quell’affermazione si riferiva a me come figura, come personaggio. Sono sicuro che non avesse mai visto un mio film.

Gili: Caro diario sembra girato in stato di grazia…

Moretti: Insomma…

Gili: In totale libertà e con una giustezza di approccio, con degli argomenti che sono il puro piacere di girare la città. Piovani ha scritto le musiche in soli 15 giorni. Anche lui era entrato in una libertà espressiva enorme…

Moretti: E’ come se una serie di casi e fortune si siano messi uno accanto all’altro. E piano piano queste tessere di un mosaico sono riuscite a comporre questo film. C’è un’altra cosa… avevo scritto quattro capitoli ma uno non c’entrava niente con gli altri tre. Il protagonista era Silvio Orlando e il titolo era “Il critico e il regista”. Orlando era un regista che dopo 30 anni di carriera senza alcun talento e attraversando tutti i generi sbagliandoli tutti… riusciva a convincere tutti i critici cinematografici tranne uno solo di Provincia che continuava a parlare male di lui. E lui ne era ossessionato. Ma alla fine non c’entrava nulla quel capitolo con gli altri tre e io non l’ho più girato. Questi tre film che ho citato insieme ovvero Caro diario, Aprile e Palombella rossa non hanno avuto una separazione netta tra momento della scrittura, la preparazione, le riprese e il montaggio. Queste varie fasi si sono intrecciate un po’ tra di loro di continuo. Si può fare un film così eccitante, rischioso e faticoso solo se hai un rapporto non marziale o ufficiale con un produttore. O addirittura, come nel caso mio, quando hai una tua casa di produzione. Per quanto riguarda il capitolo della malattia… lì ho deciso di raccontare quella vicenda quando ho capitato il tono con cui raccontarla ovvero con semplicità e ironia. Avevo un vecchio allenatore di pallanuoto che diceva sempre ai virtuosi con cui giocavo: “Nun te inventà niente!!!!”. Per il capitolo dei medici io non mi volevo inventare niente. Avevo una cartellina con appunti e senza inventarmi nulla ho scelto di inquadrare le prescrizioni e le ricette e ho tagliato la parte alta perché non sono un miserabile e non volevo mettere il nome e l’indirizzo del medico. Senza compiacimento, senza involontariamente fare una celebrazione della malattia e della sofferenza e senza sadismo nei confronti dello spettatore. Volevo raccontare tutto con molta secchezza. Naturalmente i tre capitoli non sono omogenei tra di loro. Non è un film compatto e non nasconde la sua disomogeneità. E’ un film che non nasconde ma esibisce la sua disomogeneità.

Gili: Dopo Caro diario, ho guardato Roma in modo un po’ diverso. Il capitolo “Isole” ci porta alla scoperta di un viaggio, un road movie, tra le isole Eolie in base alle loro caratteristiche. Il terzo capitolo è più privato. si conclude con: “Bisogna bere un bicchiere d’acqua”. C’è uno sguardo in macchina finale che c’era anche ne La messa è finita. Questo sguardo in macchina che significato ha?

Moretti: Che significato ha? Vabbè… ci penso (risate del pubblico, N.d.R.)… a proposito del capitolo “Isole”… questa rivalità nella realtà non è tanto quella degli abitanti o dei residenti delle isole quanto piuttosto la rivalità tra i villeggianti. Chi sceglie Lipari non capisce Alicudi e viceversa. Chi sceglie Panarea non capisce chi sceglie Stromboli. Faccio fare al personaggio di Carpentieri un percorso che molte persone hanno fatto negli ’80 e ’90 ovvero il passaggio dal rifiuto totale della televisione a un accettazione entusiasta della stessa. Questo percorso di anni… a Gerardo (il personaggio interpretato da Renato Carpentieri nell’episodio Isole, N.d.R.) io lo faccio fare in pochi giorni…

Gili: Ci hai pensato allo sguardo in macchina del finale?

Moretti: Gerardo scappa da Alicudi. C’era un finale in cui Gerardo approdava a Vulcano perché aveva scoperto che lì c’era la casa di Mike Buongiorno e lui va a Vulcano sperando di incontrare Mike.

Parte il finale alternativo di Isole con voice over di Moretti su Carpentieri che entra in una pozza ricoperto di fango sapendo che tra i natanti c’è Mike Bongiorno. Si avvicina nuotando a un uomo ripreso di spalle e gli salta addosso urlando: “Mike tu sei l’Italia, tu sei il mio maestro!”.

Si torna al dibattito.

Moretti: Perché guardo in macchina? Un film non è un cruciverba e non c’è la soluzione e non deve portarla il regista. Il cinema è un mezzo espressivo che si presta a più interpretazioni. Vi sarà capitato a tutti di rivedere un film, anche a breve distanza, e il film vi sembra completamente diverso. Mi veniva da guardare in macchina… c’è stato un incidente in cui si sono sfocate tutte le inquadrature. Tutti i ciak vennero sfocati e dopo mesi abbiamo rigirato il finale con lo sguardo in macchina… 


Gili: Ne La messa è finita quando tu guardi in camera, hai questo strano sorriso del Buddha e sembra la felicità assoluta…

Moretti: Adesso non so. Il finale de La messa è finita… è sia una sconfitta che una vittoria. Don Giulio parte per la Terra del Fuoco in Patagonia però non è riuscito lì, nella sua città e nella sua parrocchia… non è riuscito a fare tanto per gli altri. Quel finale è un grande passo avanti e un passo indietro contemporaneamente.

Gili: Lo sguardo è un modo di lasciare aperto il finale?

Moretti: Però con un margine forte. L’ultima immagine di un film è una cosa molto importante per il pubblico. E’ una cosa che porta con sé quell’ultimo fotogramma…

Gili: Dopo tre film senza sceneggiatura… arriviamo a La stanza del figlio (2001) che è il contrario. Dalla libertà alla struttura…

Moretti: Ma… semplicemente con questi tre film Palombella rossa, Caro diario e Aprile ho volto raccontare delle storie in modo più libero. Spesso le mie esperienze di spettatore, il mio, tra virgolette, lavoro di spettaore ha influenzato il mio lavoro di regista. Verso la fine degli anni ’80, dopo un periodo in cui la sceneggiatura era stata molto sottovaluta e messa da parte, ci fu un ritorno giusto dell’importanza della sceneggiatura. Un ritorno, però, anche di accademismo. Una voglia di fare i compitini ben fatti. Era un ritorno di importanza della sceneggiatura ma c’era un ritorno di accademismo, di regole da osservare in modo pignolo. Allora per reazione io con Palombella rossa (1989) ho voluto raccontare in maniera più libera e meno obbediente a regole più vecchiotte. Racconto con quel film la crisi di un dirigente del Pci. Avrei potuto raccontare la crisi familiare che va di pari passo con la crisi politica, girare dei dialoghi come: “Cara… stiamo insieme per abitudine”, oppure inquadrare la macchina, un maggiolino volkswagen, che porta il nostro dirigente fuori Roma verso dei compagni tanto onesti e appassionati ma anche ottusi. Erano film che erano già stati fatti, e bene, altre volte nel passato. Allora cosa ho fatto ? Ho preso una piscina, una partita di pallanuoto e in modo non realistico ho ambientato la storia durante una partita di pallanuoto che sembra non finire mai. Come spettatore vedevo che c’era un ritorno di regole osservate senza libertà e allora ho voluto prendermi la libertà io di raccontare lo smarrimento e la perdita di memoria della sinistra italiana ma senza la Volkswagen maggiolino. Una partita di pallanuoto con un’amnesia. Avevo individuato nella perdita di memoria un nodo del nostro paese. Della sinistra italiana. Palombella rossa è un film di invenzione. Poco dopo girai La cosa che invece è un film documentario dentro e durante la crisi del Pci. La cosa è un film documentario di un’oretta sulla fine del Pci. Dopo la caduta del muro di Berlino, dopo un paio di giorni, il segretario del Pci Achille Occhetto propose di cambiare natura e nome al partito. Una decisione che prese in solitudine. Io cominciai ad andare nelle sezioni del Pci a filmare i dibattiti. Anche lì però… io non volevo dimostrare chissà cosa. Io ho cominciato a girare per curiosità mia personale. Dubito un po’ di chi ha una tesi e deve dimostrare con il documentario la sua stessa tesi. Ero curioso di capire e allora sono andato a girare in totale semplicità. Ricordatevi il mio allenatore che urlava: “Nun te inventà niente!”. Volevo semplicemente inquadrare facce di persone che parlavano. Senza entrare in campo con il mio corpo, con le mie domande, con la mia presenza. Volevo filmare gli iscritti del partito con la loro paura, angoscia, panico speranza, gioia e… sono passati molti anni… era un’autocoscienza in pubblico a cui era interessata l’intera società italiana. Non erano interessati solamente gli iscritti Pci e gli elettori, che comunque erano tanti. A quel dibattito guardava con attenzione e rispetto l’intera società italiana dell’epoca

Gili: Andrebbe rivisto…

Moretti: Si può anche sopravviere senza…

Gili: Torniamo ai film… abbiamo detto che dopo Aprile i successivi sono con una sceneggiatura forte…

Moretti: Quando dobbiamo lasciare la sala fateci un fischio…

Gili: Ancora 15 minuti…

Moretti: Mah… ripeto… prima dicevo come sarebbe potuto essere il racconto di Palombella rossa se fosse stato scritto in modo più ordinato. Ma visto che non volevo fare lo stesso film dopo due esperienze con Sandro Petraglia… Palombella rossa sapevo che dovevo scriverlo da solo. Perché ci sono io, c’è mia figlia, la mamma… non si sa. Uno sceneggiatore mi avrebbe detto: “Perché il dirigente Pci ha una figlia ma tu non vuoi parlare allo spettatore della madre?”. Ma a me non interessava. Ero consapevole che avrei dovuto raccontare quel film da solo. Poi dopo no… sono di nuovo approdato a una sceneggiatura scritta con altre persone. E’ una traversata scrivere una sceneggiatura e da La stanza del figlio in poi ho sempre scritto in tre: io e altri due. E ora mi sono stabilizzato su questa fornumula.

Gili: E’ diverso scrivere da solo?

Moretti: E’ più piacevole non scrivere da solo per me. E’ il modo in cui penso e vivo i film. Si fa una traversata. Ci sono tanti momenti dispersivi di noia, di chiacchiere che non c’entrano niente con la sceneggiatura e poi si arriva a un’idea e a un momento piacevole. Negli anni forse il momento della scrittura è quello più difficile ma non faticoso. Quello più faticoso è per me sempre quello delle riprese. Arrivo con sollievo al montaggio perché si lavora con una persona sola. Non c’è l’ansia di rispettare il programma e girare quelle scene che devi girare e poi soprattutto lavori con una persona e non hai decine di persone che aspettano che ti venga un’idea quando non ce l’hai. Il periodo della scrittura è diventato più difficile con gli anni ma anche più piacevole.

Gili: Una domanda sul fare il regista. Chi fa lo scrittore ogni mattina può scrivere, il pittore può dipingere, il musicista può comporre. Chi fa il regista… no. C’è l’idea, poi la sceneggiatura, poi le riprese, il montaggio. C’è sempre un momento per te in cui passano anche cinque anni tra un film e l’altro. Il tuo modo di affrontare il tuo ozio ti porta a prendere altri impegni? Come con il cinema Sacher o con la rassegna Bimbi belli?

Moretti: (rivolto al pubblico, N.d.R.) Bimbi belli è una rassegna di esordienti che ospito al cinema Sacher…

Gili: Le fai queste cose per riempire questo spazio in attesa di un altro film? Per evitare un vuoto interiore tremendo?

Moretti: Devo dire che… oltre al regista io così, in passato e in parte nel presente, ho incarnato altre figure: produttore, distributore, esercente, direttore di festival come a Torino per 2 anni. Non ho mai fatto tutto questo per dovere ma per piacere. Ho prodotto i primi film di Mazzacurati e Luchetti. Ho attraversato vari mestieri per piacere e anche perché mi sembrava un modo di completare il mio lavoro di regista. Mi sembrava che fosse più completo, così. Tu hai citato i tanti anni che passano tra un film e l’altro però… nel frattempo faccio anche altro… come l’attore ad esempio…

Gili: Non è un modo specifico per combattere l’angoscia?

Moretti: L’angoscia di cosa? Gili: Della non attività?

Moretti: E’ un modo di ricaricarti. Penso che per molti registi sia così. C’è anche chi per sua fortuna ha un rapporto più leggero con il mestiere di regista. Per molti registi fare un film è un grande coinvolgimento e quando è finito si è scarichi e lentamente c’è bisogno di un nuovo sentimento nei confronti degli altri, del mondo, di se stesso e tutte queste cose poi diventano degli appunti, poi dei soggetti e poi viene fissato tutto in una sceneggiatura. Per alcuni registi questo non è lavoro automatico. Per alcun sì. Per me e per altri deve passare un po’ di tempo tra un film e l’altro.

Gili: Con La stanza del figlio racconti una storia privata, poi con Il caimano metti la tua esperienza per un soggetto più importante

Moretti: Detto così è un po riduttivo…

Gili: Ti puoi difendere…

Moretti: Ma non c’è bisogno che io mi difenda. Il caimano è una storia d’amore, un film sul cinema di serie b…

Gili: Non zeta?

Moretti: Guarda che tutto viene rivalutato. E’ anche la storia di un film. Ci sono varie storie, vari temi e vari sentimenti che si intrecciano dentro Il caimano…

Gili: Da dove ti è venuta questa idea di un papa che si tira indietro? Rimane un mistero…

Moretti: E lasciamolo…

Gili: Lasciamolo. Questi incontri devono proteggere il mistero del regista. Grazie!


28 marzo 2015 - Il secolo XIX
Link: http://www.ilsecoloxix.it/p/cultura/2015/03/28/ARpaaJxD-guardava_fellini_profezie.shtml